Mi trovo ora entro Gorizia in uno stallaggio di via Sant’Antonio con un reparto di cavalli.
Faccio la mia prima conoscenza con un bel ragazzetto. Lo vedevo timido rigirarsi d’innanzi al vasto portone guardando i soldati intenti al governo dei loro cavalli.
Ad un mio cenno della mano mi si avvicina e scoprendosi il capo mi augura il benvenuto.
Parla italiano con marcato accento veneto.
E’ snello, dai lineamenti fini e delicati. Due occhioni neri ed espressivi contrastano col pallore delle sue gote.
Veste un abituccio di buona stoffa ma logoro e rattoppato in varie parti.
Il suo tratto mi fa comprendere essere figlio di persone ben nate.
Alla mia domanda mi narra in brevi parole la sua storia e la sua voce argentina ha or scatti di sdegno or sospiri di pianto represso.
Suo padre, italiano, ufficiale dell’esercito austriaco, è da un anno nostro prigioniero.
La sua povera madre morì, or fa sei mesi, sepolta da un ammasso di rottami, e con lei la sua sorella maggiore.
Esso, con altre due sorelline, è rimasto ricoverato presso una sua vecchia zia, tanto buona per quanto povera.
-“ Non ci fa però mancare nulla,” aggiunge dopo una breve pausa con un mal frenato singhiozzo, ”non ci fa mancare nulla ma … .” e nascosto il viso dà in un pianto dirotto. Dalle sue labbra trema come un lamento la parola “mamma”.
Me lo stringo forte al petto e lo bacio con trasporto paterno, pentito in cuor mio d’avergli riaperto la dolorosa piaga del suo cuoricino.
Lo conforto, lo accarezzo, gli prometto tutta la mia benevolenza e il mio modestissimo aiuto.
Trascorsero così tre giorni. Io ricevevo più volte al giorno la sua visita e dividevo con lui il mio rancio che sulle prime rifiutava gentilmente arrossendo. Poi venne quella confidenza, tanto facile nei ragazzi, mi aprì tutto l’animo suo, mi narrò nei suoi dolorosi episodi il trattamento sofferto dai loro odiati dominatori e la gioia grande al primo giungere in città dei nostri tanto aspettati soldati apportatori di libertà e di benessere.
Alla mia domanda circa le scuole mi risponde:
-“ Qui a Gorizia vi erano pure le scuole comunali, con lingua e programma italiano, ma erano ben poche in proporzione al nostro grande numero. Erano, la più parte, tedesche e slave. Lo slavo, ecco il nostro maggior nemico, il nostro tormentatore, il nostro sopraffattore. M’hanno detto i miei che vennero mandati in massa a Gorizia, non so per qual fine. Giunsero affamati e pezzenti, ma in breve presero piede ovunque e la facevano da padroni; e più s’accresceva la loro losca fortuna e più insuperbivano contro di noi italiani, seviziandoci in mille maniere. Ma ora è finita per loro, ora ci siete voi, tanto buoni e noi si respira finalmente e ci sentiamo meglio. Oh benedetti! Benedetti!”.
Parlava con tanta enfasi e con tanta serietà che rimasi stupito dinnanzi a quel ragazzo non osando interromperlo.
–“Ho anch’io un ragazzetto della tua età”, dissi dopo ch’egli tacque,” e studia come te e ti assomiglia tanto, vuoi vederlo?”. E tratto dal mio portabiglietti il ritratto glielo posi fra le mani che si protendevano irrequiete.
– “Vedi, aggiunsi, voleva seguirmi alla guerra, ha un buon cuore come te e l’argento vivo nelle vene.”
Il piccolo goriziano mirò a lungo il ritratto mezzo sgualcito : “Mi permette?” ma non terminò la parola che accostateselo alle labbra lo baciò ripetutamente. Poi come vergognoso del suo atto mi rimette nelle mani il ritratto e fugge via come una rondine.