10 settembre 1917

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Finalmente ho il permesso di lasciare il letto, e manco a dirlo, passo buona parte del pomeriggio  nella stanzetta del tenente Vandoni a dipingere dei soggettini ch’egli mi offre. S’è fornito d’una splendida scatola di colori all’olio ed è entusiasta di apprendere da me quei primi elementi pratici della tavolozza. Mi colma di gentilezze e di doni.

E’ d’una bontà e di una delicatezza insuperabili; mi parla di sé e della sua famiglia come ad un vecchio amico, alla mia volta io mi sfogo e gli apro l’animo risentendo un gran sollievo dalle sue affezionate parole.

Alla mattina, dopo la visita medica, mentre egli è occupato coi suoi ammalati, io mi levo di letto e passeggio lungo le aiuole del grande giardino.

E’ una fioritura meravigliosa che imbalsama l’aria e rallegra l’animo di tanti sofferenti.

Il recinto confina coll’altra sponda del bel fiume Natisone. Un lungo ponte ferroviario è traversato ad ogni momento da lunghi treni in arrivo e partenza.

La vista del treno mi aumenta la nostalgia del mio paese e il desiderio ardente di rivedere i miei cari.

-“Che penserà di me mia moglie, non ricevendo mie notizie?”

Nella persuasione di lasciar l’ospedale da un giorno all’altro, mi ero imposto di non scriverle per non addolorarla.

Quante notti insonni ho passate!

Ma mentre era grande in me il desiderio di ritornarmene alla mia batteria, tanto più grande era il pensiero del tenente Vandoni di trattenermi ancora a lungo.

-“Mi sento bene, mi creda, sono guarito”.

-“Questo lo deve dire il dottore, non lei. Guarito? Non ancora, abbia pazienza ancora un poco.”

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