30 Giugno 1917 – Commemorazione di Goito al campo

Grazie alla munificenza dell’ottimo nostro capitano, il pranzo fu oltremodo abbondante e squisito. Non mancarono neppure i dolci.

Si era già al caffè quando compare il comandante circondato da tutti i suoi ufficiali  e da altri intervenuti al nostro festino.

Cessano come per incanto le allegre grida e d’uno scatto s’è tutti in piedi sull’attenti.

Il capitano sorride a quel festoso convivio, pronuncia brevi parole d’occasione poi mi chiama a se invitandomi a declamare il mio discorsetto.

Mi presenta agli ufficiali invitati, niente di meno che come “l’oratore della sua batteria”.

Avrei voluto nascondermi dalla vergogna ma è giuocoforza ubbidire.

Mi faccio animo e con voce alta e sicura:

Compagni!

Da quindici giorni si sono iniziate le attese azioni che peseranno sui destini non solo della patria nostra ma di tutti i popoli aspiranti alla libertà ed al civile progresso.

Le secolari immani lotte fra il sacro diritto dell’uomo contro le prepotenze del forte avranno il loro epilogo in questa titanica ed estrema lotta.

Trionferà, statene certi, la causa della giustizia.

Non dimentichiamo un solo istante lo scopo santo della nostra guerra e ci sentiremo più agguerriti e più fiduciosi della nostra vittoria.

Questa, oltre a rendere liberi tutti i popoli asserviti ed oppressi, ci aprirà una lunga era di pace, di proficuo lavoro e di benessere sociale.

Le nostre armi segnano giornalmente un passo verso la vittoria contro un nemico secolare e ben agguerrito che ha per sua potente alleata la natura stessa.

Ma a che varrebbe il nostro comune sforzo se non è accompagnato dalla cieca fede della nostra potenzialità bellica e morale?

A che varrebbe il sublime sacrificio di tanti gloriosi caduti se in noi vacillasse questa fiamma d’amor patrio?

Sotto queste zolle, rese sacre pel loro sangue generoso, non avvertiamo noi il fremito dei loro spiriti immortali, il loro fraterno appello, il loro ultimo grido di vendetta?

Che ne sarebbe dei nostri venerati genitori, delle nostre spose e sorelle, dei figli nostri, se per un momento di nostro abbandono, il nemico riuscisse ad infrangere la nostra resistenza?

Ah meglio morire liberi che vivere schiavi!

Ricordatelo, miei compagni d’arme, ricordatelo.

Questo fu il grido dei padri nostri che, pur di rendere libera la loro patria, sostennero cento battaglie impari, soffersero il duro carcere, irrorarono del loro sangue, fecondo d’eroi, il ceppo d’infame mannaia.

Saremo noi figli degeneri?

No. Gli artiglieri della 2° batteria non per nulla si fregiano del motto. – A nessuno secondi. –

A nessuno secondi per lo spirito di abnegazione e di disciplina in tutti i servizi per quanto duri e pericolosi; a nessuno secondi per la resistenza e pel coraggio nelle tremende ore del fuoco; a nessuno secondi pel sacro sentimento del dovere  e dell’amor di patria, ci costasse pur la vita.

Voi, giovani e fieri compagni miei, vi mostrerete, come sempre, degni soldati d’Italia e quali vi ha plasmato il valoroso ed ottimo vostro capitano.

E quando, un prossimo giorno, ritornerete vittoriosi in seno alle vostre famiglie, vi sentirete ben tranquilli ed orgogliosi d’aver compiuto tutto il vostro dovere; e molto avrete meritato dalla patria riconoscente.

Questo bel sole irradia la terra in tutta la sua gloria, mentre i nostri ubertosi campi c’inviano sull’ali del vento la loro fragranza.

Da lontano ci giunge l’eco dei patrii bronzi e stormi di rondinelle, provenienti dal nostro bel mezzogiorno, ci mandano coi loro trilli il saluto augurale.

Nel fulgore del nostro bel sole è il segno della fecondità e della pace che scenderà sovrana sulla terra dolorante. Nella fragranza dei nostri campi la divina promessa di benessere sociale; nel saluto delle rondini, il bacio dei nostri cari.

Nell’eco dei sacri bronzi è l’ultimo appello che la gran madre patria ci grida: – Avanti, figli miei, la vittoria è con voi -.

Viva l’Italia, viva il nostro Re!”

Le mie ultime parole sono coperte da un urrà formidabile.

Il capitano, visibilmente commosso, mi prende la mano, stringendomela forte.

Lo seguirono gli altri ufficiali.

I compagni, abbandonati i loro posti, mi si serrano intorno stordendomi coi loro evviva.

I più vicini, sollevatomi in alto sulle loro robuste braccia, mi portano in giro attorno all’accampamento, sballottandomi come una povera statua di sant’Antonio.

Invano tento sottrarmi dalle loro braccia e faccio buon viso a cattivo giuoco.

Il capitano e gli altri ufficiali dall’alto del loro terrazzino si godono un mondo a questa scena e battono le mani, mentre cresce in me la vergogna e lo stordimento.

Giuro in cuor mio di non far più discorsi.

Ma alla sera volli prendere la mia rivincita ed annunziai, senz’altro, un numero fuori programma.

Colsi un momento che non ero osservato da nessuno e mi nascosi entro una grotta a combinare due versi satirici alla barba di quei caporioni che m’obbligarono a quella forzata e ridicola processione.

E questi caporioni sempre i soliti : Chiappa, Figini, Caccavalle, Mattei, Aldrati, Isotta e compagnia bella.

Oh che bei soggetti!

Il caporale telefonista Figini, già lo conosciamo sotto il pseudonimo di – Fiammetta – . Il soldato Caccavalle è sarto e vivandiere della batteria. Un pezzo di ragazzone sempre allegro che, per un difettuccio fisico, cammina pigro e pesante come un pachiderma. Il sergente Chiappa, uno schiamazzatore, un nervoso, uno spaccamonti, ma timido e pauroso, oltre l’incredibile, nei momenti dell’azione.

L’operaio di batteria, Mattei, un toscano; famoso per l’inesauribile sua loquacità e destrezza nel far giuochi di …  prestigio; un vero sbafatore.

Il soldato Isotta, genovese, cameriere di grido che, dice, d’aver girato mezzo mondo e conoscere tutte le lingue. E’ cameriere della mensa ufficiali, tanto basta.

 

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *