Ore 20
Il mio capitano m’affida venticinque uomini pel trasporto delle munizioni dalla galleria del Peuma alla batteria, essendo rimasta pressochè sprovvista.
Non essendo possibile servirsi di carri per la mancanza di strade carrozzabili conviene supplire coi cavalli condotti a mano. Ai due lati del basto sono assicurati appositi sacchi per contenere i proiettili.
Questa galleria, sita quasi alla cima del colle del Peuma, era un deposito di munizioni che dovevano servire nel caso di un’eventuale ritirata da parte nostra.
Il tragitto, di circa tre km, è in questo momento quanto mai pericoloso. Si tratta d’attraversare la passerella di barche, presa tanto di mira dal nemico, poi salire, salire, sempre allo scoperto, una disagevole e ripida mulattiera, irta di scogli. E tutto questo mentre infuria l’uragano del fuoco.
Il bravo capitano, colla sua affascinante parola, c’incoraggia nell’ardua impresa.
-“ I vostri compagni, là ai pezzi, sostengono da due giorni e due notti fatiche e pericoli incredibili; ma non domandano riposo, sibbene munizioni. M’affido al vostro onore di soldati e che Dio vi protegga”.
Passò così tutta la nottata in quel faticoso andare e venire.
Più che al pericolo dei colpi che ci scoppiavano più o meno vicino, io faccio attenzione a reggere bene per la briglia il mio cavallo acciò non inciampi nelle difficili discese e questo non cessai di raccomandarlo ai miei bravi compagni.
Una caduta del cavallo sarebbe fatale provocando il facile scoppio degli srapnel.
Quella truce scena di bombardamento notturno, che in altri momenti mi avrebbe fatto rimanere estatico, ora ben poco m’interessa.
Il maggior pericolo era nelle mie mani.
Ore 22
Siamo letteralmente affranti dalla stanchezza. S’è dato il cambio ai cavalli ma non a noi. La batteria non dispone d’altri uomini.
Le gambe non mi reggono più e stento a tenere gli occhi aperti. Avverto un forte dolore al capo, ma mi rassegno e incoraggiando i compagni incoraggio me stesso.
Sono le dieci e mi trovo sulla vetta del Peuma intento a riempire i sacchi dei proiettili.
Il bombardamento nostro, che aveva un po’ rallentato nelle prime ore del mattino, causa la fitta nebbia, riprende ora tutta la sua furia.
Sono migliaia di bocche da fuoco, d’ogni calibro, che vomitano mitraglia. Trema il monte come scosso da terremoto, il cielo è plumbeo per la densità del fumo che s’eleva pigro dalla terra; l’aria è divenuta quasi irrespirabile.
Quanto durerà quest’inferno?
Ma ecco come per incanto cessare il bombardamento, altro non s’ode che lo scoppio delle bombe a mano ed il crepitio delle mitragliatrici.
Queste terribili macchine, che sembrano gingilli a confronto dei nostri cannoni, divorano, novelle Moloc, più vite umane che non le raffiche dei nostri srapnel.
A contatto col nemico, celate abilmente fra le piccole anfrattuosità del terreno o fra poche frasche, sono le avanguardie delle fanterie. Dalla loro sottile canna vomitano centinaia di colpi al minuto con un movimento a ventaglio sì che spazzano il terreno per una vasta zona.
Nessun essere vivente può sottrarsi incolume se viene preso in quel loro raggio d’azione.
Il loro crepitio spaventa come l’ululato della morte.
E’ l’assalto dei nostri fanti, ed io seguo trepidante quella massa grigia che balza fuori dalle trincee col suo grido di vittoria “Savoia!”
Le mie fatiche, i pericoli che scampo ad ogni minuto, mi sembrano ora nulla in confronto al loro sublime sacrificio.
Il cuore mi martella forte e il pianto mi vela gli occhi.
-“Compagni”, grido, ”laggiù si combatte e si muore, preghiamo per quei valorosi”.
I miei bravi artiglieri, tutti lividi e stracciati, quasi irriconoscibili per i sovrumani strapazzi d’una intera settimana, ma non puranche domi, questi miei buoni artiglieri comprendono il mio invito e piegano riverenti il ginocchio a terra.
Poi levatisi di scatto levano in aria i loro elmetti e lanciano al cielo, alto e possente, un solo grido: “Viva l’Italia!”