Ore 1,30
In quel penoso dormiveglia mi sento chiamare ad alta voce.
E’ il caporale telefonista Figini che mi avverte di correre al terzo pezzo a sostituire il telefonista Pitacco, rimasto ferito.
Era la prima volta che venivo comandato per tale servizio, e corro inerpicandomi fra gli scogli per giungere prima.
Eccomi col mio apparecchio a fianco del pezzo che vomita fuoco. Le vampate dei colpi mi accecano e quegli spari secchi, metallici, mi stordiscono fortemente. Ma mi rassegno di resistere e di rimanere calmo.
Col monofono dell’apparecchio fisso all’orecchio, intento a ben ricevere e comunicare i dati di tiro, la mia mente in quei momenti è ben lontana da ogni altro pensiero o preoccupazioni del pericolo. A questo non ci si pensa per nulla, che nulla si comprende. E’ tutto un rombare d’inferno, è tutto un incendio; una bolgia dantesca.
Una ridda di numeri e di comandi passano dal filo telefonico al mio orecchio straziato e sanguinante e la mia gola arsa ripete forte i numeri e i comandi.
I cannonieri, scamiciati e neri dal fumo, s’affannano alla manovra del pezzo infuocato. Ognuno ha il suo compito; non un grido, non una parola.
E’ una tensione febbrile di nervi da non descriversi.
Tutto il mio essere è concentrato nell’udito; guai se comprendessi male un numero. Dio sa il danno che apporterei alle valorose nostre fanterie, che ferme nelle loro trincee, sotto il diluvio della traiettoria dei nostri colpi, attendono il segnale dell’assalto per lanciarsi alla baionetta sul nemico.
Ho sostenuto questo sforzo sino alle nove del mattino, cioè sette ore e mezza, quando finalmente mi giunge il cambio.
Mi getto sfinito dalla stanchezza sul mio rustico giaciglio e m’abbandono al sonno ristoratore non prima d’aver ringraziato il Signore d’avermi protetto.
Ore 12
Vengo nuovamente chiamato per recarmi a Gorizia per un servizio d’urgenza.
Trovo già il cavallo insellato e parto al galoppo.
Ciò che colpisce subito il mio sguardo è l’antico ed imponente castello, che domina la città, ridotto in uno stato orribile.
Era la dimora frequente del defunto imperatore Francesco Giuseppe, ora funzionava da prezioso nostro osservatorio. Nei suoi sotterranei vi lavoravano centinaia di militari del genio per le urgenti riparazioni di materiale bellico.
Non riconosco più il lussureggiante parco che lo circondava : tutto è sconvolto, tutto è bruciato.
Il castello di Gorizia rassomigliava al Mont-martres di Parigi.
La città ha subito un nuovo battesimo di sangue. Niente è stato risparmiato, neppure gli edifici della croce rossa che l’umanità civile ha dichiarato sacri ed inviolabili.
E purtroppo chissà quanti poveri feriti vi hanno trovato quella morte barbara che avevano schivata sul campo dell’onore.
Di fronte alla sussistenza militare, essa pure colpita in malo modo, l’elegante palazzina è un cumulo di macerie. Una sola parete è rimasta in piedi per un miracolo di equilibrio. Appesa ad essa è un bel ritratto ad olio di giovane signora e più sotto, entro una cornicetta dorata, una fotografia di due bimbi. Al centro della parete un’artistica tela raffigurante l’”Ecce Homo”.
La dolorante effigie del Nazzareno è in parte lacerata.
Fra i rottami un oggettino candido attira la mia attenzione. E’ un piccolo angelo custode in bisquit.
Lo raccolgo; era intatto.
Mi sembra un buon augurio e gelosamente me lo ripongo nel taschino interno del panciotto.
Ho il presagio che mi debba portare fortuna.
Al mio ritorno, mentre percorro al trotto il lungo viale del Sabotino, giunto quasi di fronte alla palazzina ove risiede il mio Comando del 48, vengo investito da un’esplosione così formidabile che fui sul punto di balzare di sella. Non vedo più nulla solo mi sento la persona colpita da minuto pietrame.
Dissipatosi il fumo m’accorgo allora d’averla scampata per miracolo.
Un 103 austriaco, a meno di una ventina di metri davanti a me, aveva esploso sul margine destro della strada e colpito in pieno un nostro obice da 149 ivi piazzato.
Giaceva ora smontato dal suo affusto a fianco d’un grosso albero divelto dalle radici.
Il colpo era certamente diretto alla sede del comando ed io ebbi un fremito a questo subito pensiero. Al nemico non erano ignoti i bersagli da colpire.
Conosce le località ove risiedono comandi, quantunque si cambino di sovente, sa dei movimenti e delle impostazioni delle batterie, dell’arrivo di nuove unità.
La vigilanza entro e fuori la città è severissima ed attiva. Come si spiega il mistero?
Esso fu svelato disgraziatamente un po’ troppo tardi.
Un parroco, un rinnegato italiano, cadde nella trappola e la scontò con la vita.
Usciva di rado dalla sua chiesa e fu visto troppe volte immerso nell’orazione davanti al Tabernacolo.
Questo zelo inusitato creò dapprima una riverente ammirazione, poi subentrò un sospetto.
Sospetto atroce, incredibile.
Un milite della benemerita entrato di soppiatto nella chiesa deserta in quell’ora vide il parroco, senza alcun atto esteriore di riverenza, aprire il tabernacolo che rinchiudeva … un apparecchio telefonico comunicante con le trincee nemiche di S. Caterina.
Vi saranno stati di certo altri complici che aiutavano il prete per le informazioni.
Questa scoperta fu il filo conduttore di altre ancora.
L’esoso austriaco, prevedendo la perdita di Gorizia, aveva da tempo impostata nascostamente una fitta rete telefonica sotto terra, né gli mancarono i compari venduti al suo oro, che lo servirono appuntino e con precisione.
Riavutomi dallo spavento e cogli occhi quasi acciecati dalla terra, rabbonisco il povero cavallo che s’era impennato, poi lo incito con la voce a riprendere la sua corsa.
Non trovo altra salvezza che nella fuga; altri colpi scoppiano avanti e dietro di me con fracasso indemoniato.
L’intelligente animale sembra percepisca il pericolo e si lancia al galoppo come una carica al campo.
Non riesco a frenarlo in quella corsa fantastica e forte reggendomi in sella mi abbandono nelle mani del destino.
E il generoso animale scansa a volo gli ostacoli d’ogni specie, salta fossati, s’addentra nei camminamenti e mi riconduce alla mia batteria incolume.
Il mio primo pensiero va al mio angelo custode che serravo vicino al mio petto.
E’ lui che m’ha salvato!