Sull’ imbrunire finalmente si riprende la marcia. Partono prima i quattro pezzi comandati dal Capitano, accompagnato dai tre Ufficiali Ferrari, Galluzzi e Marchini.
Al tenente Marzioli viene dato il comando della colonna cassoni-munizioni che seguirà i pezzi a mezz’ora di strada.
Avrei desiderato partire coi pezzi, ma non mi viene concesso e mi rassegno a far parte della seconda colonna.
La pioggerella, per un po’ cessata, riprende ancora con più intensità, ma ormai si sopporta con un po’ di calma, sapendo che fra poco troveremo un qualche ricovero per poter prosciugare i nostri panni e concederci finalmente un po’ di riposo.
Più si avanza, più si odono distinti i colpi delle cannonate.
Lasciamo dietro di noi borgate ridotte cumoli di macerie. La visione dei ridenti paesetti della costa calabra, squassati dal terremoto, e la devastazione della bella e superba Messina, impallidisce al confronto della scena orribile di queste ruine. Provo la sensazione del terrore e della pietà.
Eccoci a Lucinico, una volta centro d’industrie. Rinomato, specie per la sua grandiosa cartiera. Che ne è ora di questo ricco paese, ove ferveva il proficuo lavoro di ottomila operai? Un mucchio informe di rottami, di macchine gigantesche squarciate, abbattute, qualche angolo di fabbrica retto in piedi per un miracolo d’equilibrio, qualche esile ciminiera elevantesi al cielo, colla punta mozzata .. .
E’ già notte ed i vividi lampi rischiarano a tratti quelle ruine dando al paesaggio un’impressione di terrore e di fantastico. Quelle macerie prendono il colorito d’un rosso sangue.
Ai lati della strada, per mezzo di fili metallici tesi a dei pali, è un’ininterrotta parete di canne e stuoie alta circa tre metri. Al di sopra poi, ad intervalli di otto o dieci metri, altre cannuccie a somiglianza di festoni, quali s’usano nei paesi di provincia nella ricorrenza di qualche sagra.
Questi apparati strani, che all’occhio del profano sembrano inutili, servono invece magnificamente per celare al vicino nemico il movimento sulla strada delle nostre truppe e dei carreggi.
Quei festoni ingannano la vista agli aereoplani nemici , di giorno; quelle pareti di stuoie impediscono di notte ai riflettori di scoprire ciò che passa sulla via. Il loro fascio luminoso s’arresta, s’infrange su quella parete provvidenziale.
Ma il nemico sa bene che quella strada principale è battuta di continuo, sa che da essa affluisce quella forza imponente ch’egli teme e tenta interrompere il collegamento delle truppe, arrestandole per un poco, spargendo il terrore ed il disordine con tiri ad intervalli irregolari, ciò che in termini militari si chiamano “tiri d’interdizione”.
Siccome il pescatore che getta l’amo sulle torbide acque senza scorgervi passaggio alcuno di pesci, ma pur colla speranza che qualcuno abbocchi.
E, purtroppo, questi tiri d’interdizione fanno tante vittime!
Si passa ai piedi del Podgora; alle sue spalle si profila fra le tenebre la cima del Monte Calvario.
Il Podgora! Ecco un nome che resterà scolpito nell’animo del combattente italiano come la montagna mostro. Novello Moloc quanto sangue ha egli bevuto! Quanti eroismi ignorati! Quante giovani vite romagnole si sono quivi immolate!
Fu una lotta da titani. Il nemico vi si era mirabilmente fortificato e reso invulnerabile per le sue profonde gallerie che il fuoco possente delle nostre artiglierie non valse a demolire o distruggere almeno in parte. Il monte era una galleria ben protetta, un uomo, in quelle condizioni, valeva per cento.
Fu l’arma bianca, la terribile baionetta italiana, che riuscì ad espugnare quella posizione infernale, uno dei capi saldi della difesa di Gorizia.
Il terreno è tutto sconvolto, non v’è palmo che non sia stato battuto. E’ un aggroviglio di fili dentati, di cavalli di Frisia accatastati l’un l’altro, un ammasso di macerie, di piante demolite che mette orrore.
Il mio sguardo erra inebetito su quello scenario di guerra … .
Dalla vetta del nero Calvario scorgo tre grandiose croci .. le sole superstiti del furore degli uomini.
Un primo colpo austriaco esplode con fragore sulla strada a pochi metri avanti la nostra colonna.
Un grido d’imprecazione mi fa volgere indietro, seguito da un altro grido di dolore; poi vedo il cavallo montato dal tenente Marzioli trottare, senza il suo cavaliere, e fermarsi alla testa della prima pariglia di volata.
Balzo a terra e coll’aiuto d’un compagno sollevo il povero tenente che geme premendosi colle mani il pingue ventre.
-“S’è fatto male, signor tenente?” domando con ansia.
–“Ma .. veramente non so .. mi sento qui un dolorino .. ma passerà”.
-“Favorisca salire sul mio cassone, v’è posto anche per lei”.
–“Si, si, sarà meglio …. Oh il mio c…. “ e si preme le mani dove .. non azzardo nominare.
Trattengo a stento una risatina e l’aiuto a montare sul cassone.
–“Le ha fatto qualche scarto il cavallo? Sì è forse impennato per quel colpo?”
–“Ecco .. veramente, no … non s’è impennato, poveretto, sono stato io che ho avuto … ohi! .. ma questo carro traballa orribilmente, arriverò colle ossa rotte .. “
–“Vuole rimontare a cavallo?”
–“No, no … meglio qui .. non vorrei …”
Non termina la frase che altri due colpi si succedono a breve distanza, ma dietro una cinquantina di metri dalla colonna.
Il povero tenente scatta sul cassone come spinto da una molla poi si restringe nella persona, ripiegando la grossa testa sulle spalle quadrate.
-“Dove sono scoppiati?”, mi domanda con un fil di voce.
-“Dietro di noi, ma distanti …” e azzardo aggiungere : “Si faccia animo, signor tenente.”.
Questi si decide sollevare il capo e guardandomi in faccia con aria di stupore:
-“Ma tu non hai paura? Pure non mi sembri di primo pelo, e alla nostra età … . Tu come ti chiami? Non t’ho mai visto al distaccamento.”
-“Sto in batteria, signor tenente, mi chiamo Joli.”
-“Avete detto?”
-“Che mi chiamo Joli, per servirla .”
-“Oh, porca l’oca, scusate .. scusi, lei siete il pittore .. ora rammento .. il capitano prima di ripartire mi aveva raccomandato che … oh la bestia ch’io sono! .. scusate .. non faccia parola , scenda subito .. salga sul carro bagagli in coda … è l’ordine.”
Il tenente s’imbrogliava. Era veramente comico. Il mio giudizio del giorno avanti, sul conto suo, era indovinato. In quel corpaccione albergava un semplice cuore di un provinciale, buono per quanto timido.
Naturalmente non volli scendere e lo pregai di non insistere e di trattarmi alla pari degli altri.
-“Bene, bene, dunque, caro pittore .. Jo … Jo .. come hai detto?”
-“Joli”.
-“Già, Joli; convieni che hai un cognome un po’ strano, è la prima volta che lo sento nominare. Dunque, caro Jole ..”
-“Joli, signor tenente.”
-“Porca l’oca, bè è lo stesso, Joli, Jole, tu m’intendi. Volevo dirti che, quando avrai un po’ di tempo libero, mi farai ….”
-“Un piccolo paesaggio dell’Isonzo?”
-“Lascia stare l’Isonzo maledetto, ne ho già piene le … . Dunque, dicevo, mi dipingerai il mio ritratto, così a mezzo busto. Va bene? Se sarà ben eseguito, porca l’oca, sarai contento di me, caro pittore … Joli, hai detto?”
-“Non posso, con mio rincrescimento, accontentarla, perché mi diletto solo del paesaggio; non ho studiato che un pochino la figura decorativa, mi creda.”
-“Ho capito, vuoi farti pregare per … . accidenti! Colonna alt. Fermi per Dio!..”
Questa volta tiravano sul serio; colpi avanti, colpi indietro, non c’era scampo.
Sulla nostra destra ad un centinaio di metri più avanti si scorgevano alcune case. Non ci si offriva altro riparo, ed al galoppo raggiungiamo il sito di protezione, addossandoci lungo le mura di esse.
Il povero tenente tergevasi l’ampia fronte con un voluminoso fazzoletto colorato, sbuffava, malediva, raccomandava il massimo silenzio.
S’imbestialisce con un conducente che osò accendere una sigaretta, minaccia un altro di legarlo al palo e non la termina di fischiettare.
-“Siamo nei pasticci, caro Joli; arriveremo a traversare l’Isonzo? Proprio a me lasciano questa responsabilità … Ei laggiù, silenzio, maledetti ragazzi! E siamo a tiro di fucile da quei cani … Ecco un altro che accende la … Ah, gaglioffo! ..”
E via, correre verso l’impenitente fumatore, sbuffando e tutto dinoccolato, premendosi con le palme il suo povero deretano.
Ciò che mi sorprende è l’intelligenza dei nostri fidi cavalli. Pare comprendino al par di noi il loro delicato compito di guerra ed ubbidiscono prontamente alla voce del proprio cavaliere . Essi percepiscono forse più di noi il pericolo e fiutano l’aria infida; non un nitrito, non un colpo di zampa. Lo scoppio di colpi, anche se vicinissimi, non li spaventa, non li scuote dal loro posto. Si limitano a drizzare per un attimo la testa, puntando le piccole orecchie verso il luogo dello scoppio, poi ripiegano lentamente il collo verso terra e dalle narici dilatate sprigionano un soffio prolungato.
Scorgo avvicinarsi lentamente, dietro di noi, un’interminabile colonna di muli condotti a mano.
Procedono ai bordi della larga strada e distanziati una decina di metri l’un dall’altro.
E’ la colonna di rifornimento viveri per le fanterie delle trincee avanzate.
Entro quelle marmitte d’alluminio, ermeticamente chiuse ed assicurate al basto, v’è l’atteso rancio, ben confezionato e sempre caldo, che quei bravi territoriali recano, ogni notte, ai loro giovani compagni combattenti, sfidando pericoli d’ogni sorta.
Il nemico conosce a perfezione le mulattiere e i camminamenti, i tratti di strada ch’essi sono costretti a battere e sa pure presso a poco l’ora del loro passaggio. Tiene costantemente dei pezzi puntati in questi diversi punti, e spara ad intervalli disuguali per meglio ingannare ed offendere.
E sono vuoti che produce nella povera colonna.
Ed io saluto col gesto della mano questi umili e bravi uomini dai grigi capelli, assai dimenticati e pur tanto preziosi, e pur tanto provati dalle disgrazie. Io li saluto con un restringimento al cuore … vorrei a tutti lanciare il mio grido di saluto e di augurio. Vorrei a tutti loro stringere cordialmente la mano e benedirli per la loro opera sì grave, per le loro fatiche, per la rassegnazione e lo stoicismo col quale affrontano la morte pur di non ritardare l’atteso cibo ai prodi combattenti.
Ma un fischio acuto, a noi ben noto, solca l’aria, indi un formidabile scoppio di granata, seguito dallo scroscio di pietrame che tutti c’investe.
La granata ha esploso quasi a noi di fronte, sul margine sinistro della strada. E’ un attimo. Un attimo d’angoscia e di spavento.
Una gigantesca vampata rompe il buio profondo della tristissima notte, un grido confuso, inumano … e un mulo ed un uomo lanciati all’aria colle membra orribilmente straziate.
Poi tutto ripiomba nel silenzio e nelle tenebre, mentre una densa nuvola di fumo s’eleva pigra dalla terra lacerata e rossa di sangue.
Ma la colonna non si scompone, non s’arresta, né retrocede.
Il collegamento è presto ripreso e quei territoriali passano, scoprendosi riverenti dinnanzi a quei miseri resti … e proseguono; … proseguono muti e addolorati il loro arduo cammino, tutt’assorti in un pensiero di religione e di rimpianto.
Il tenente Marzioli, che è rimontato a cavallo, passa ora in rivista la sua colonna munizioni assicurandosi che nessuno di noi sia rimasto ferito.
-“Nessuno? Tanto meglio. Ed ora attenti ragazzi; dalla vostra ardita manovra può dipendere la vostra salvezza.”
E postosi alla testa del primo cassone “Al trotto allungato, intervallo di trenta metri, march”. E la colonna parte al trotto serrato.
Ecco profilarsi un lungo e stretto ponte costruito su zattere incatenate fra loro. Sento lo scroscio turbinoso dell’acqua del sacro fiume ed un picchiettare affannoso di martelli e di gravine confondentesi colle esplosioni delle granate lanciate contro l’esile ponte che vanno per la maggior parte ad infrangersi sugli scogli.
Il nemico accortosi del nostro avvicinarsi tenta impedircene il passaggio, ed infuria con salve di batteria.
Ma una squadra d’uomini, dal polso d’acciaio e dal cuore che non trema, sfida notte e giorno la rabbia nemica e sotto il grandinare della mitraglia compie la sua opera, ben sapendo che è nelle loro mani ed al loro coraggio affidato il compito sacrosanto di non far interrompere il transito delle nuove forze che dovranno sostenere l’azione dei combattenti oltre l’Isonzo.
Due ombre nere avanzano verso di noi gridandoci l’alt.
Sono due carabinieri, addetti alla sorveglianza del ponte, che ci avvertono di sostare un pochino causa di una larga falla prodottasi ora.
-“Maledizione!” grida il tenente alzando in aria il suo poderoso pugno, “ed ora?”.
– “Sarà presto riparato,” aggiunge un carabiniere, “i nostri bravi pontieri sanno fare miracoli”.
Difatti non trascorsero dieci minuti che si riceve l’ordine di proseguire.
Giunti al ponte, scendono a terra i conducenti di volata tenendo per le redini i loro cavalli.
E’ un momento che non dimenticherò mai.
I minuti sembrano ore ed il lungo ponte addirittura interminabile. Sotto di noi la minaccia della corrente quasi vogliosa di travolgere e squarciare le povere zattere cigolanti, sopra il nostro capo le pallottole infuocate degli srapnel che esplodono ad una ventina di metri d’altezza.
Momenti d’angoscia.
Un arresto. Che c’è?
Un cavallo s’è abbattuto colpito alla testa da una scheggia. Con due colpi di coltello lo si libera dai finimenti. Una forte spinta, un tonfo sordo e la povera bestia sparisce travolta nel vortice della corrente.
Oramai siamo al sicuro, ed io mi volgo indietro a gettare un’altra occhiata a quel ponte, con quell’ansia con la quale il naufrago, raggiunta la riva, guarda l’onda che minacciava di sommergerlo.
La prima partita è vinta. Ciò m’è di buon augurio. Viva Gorizia!
Tutt’avvolta nel buio d’una triste notte tempestosa non si lascia scorgere all’occhio nostro se non per quel tanto che ce lo permettono i frequenti razzi luminosi lanciati dalle vicine trincee.
In fondo alla via Sabotino e propriamente all’incrocio di via di Salcano ci viene incontro il nostro comandante la batteria e fa sostare la colonna. Impartisce degli ordini al tenente Marzioli, e dopo avere passato in rivista i suoi soldati e confortatili con quelle parole suggestive che sa trovare nei momenti del pericolo, mi invita a seguirlo.
-“Venga con me ad una passeggiatina d’esplorazione sull’Isonzo.”
–“Onoratissimo,” rispondo, desideroso di sgranchire le membra tutte indolenzite e curiosissimo poi d’ammirare da vicino quelle scogliere che hanno del fantastico.
Ci inoltriamo fra dedali di trincee abbandonate, fra cumuli di macerie di povere casette distrutte, fra siepi di fili dentati.
Ora s’imbocca una galleria, ora ci si arrampica su cataste di legname e di materiali, per ridiscendere entro un camminamento sconvolto e ingombro di fili telefonici ed oggetti di corredo d’ogni specie, e proiettili a profusione.
Individuo lo scopo del mio capitano.
Eccoci in mezzo alla scogliera. Io credo che non vi sia fiume in tutta Europa che pareggi con questo per le svariatissime sue forme e per la struttura delle sue sponde.
Sono massi enormi granitici che si sollevano dal suo alveo raggiungendo altezze da quindici a trenta metri. Hanno forme strane ed artistiche. Si direbbe che sia stato il genio di qualche ciclope a scolpirle in quella maniera.
Di fronte alla passerella del Penna, un gigantesco scoglio, visto di scorcio, raffigura in modo meraviglioso la testa di una sfinge egiziana. Un po’ più oltre, altro scoglio ha la forma d’un rostro di nave romana.
Altri s’innalzano come colonne, altri, abbattutisi gli uni sugli altri, formano gallerie e ricoveri splendidi per le truppe di passaggio.
Ad ogni passo è un aspetto nuovo, una nuova meraviglia che sorprende ed impaurisce.
E’ una visione dantesca che ho d’innanzi ed io seguo il mio capitano, muto e sbigottito.
A tratti è un razzo che illumina la scena seguito da scoppi fragorosi di colpi, la cui eco si ripercuote fra le gole ella scogliera. Poi tutto ripiomba nel silenzio e non s’ode che lo scroscio delle acque ed il monotono verso del gufo.
-“Qui,” dice il capitano additandomi la scogliera che in quel punto scendeva a strapiombo da un’altezza di una trentina di metri, “qui sarà il nostro accampamento. Non mancano fifans per le circostanze,” aggiunge ridendo,” vi sono tane e grotticelle per tutti i gusti. E’ una ricchezza, che ne dice?”
Apro la bocca per rispondere, ma non m’esce che un sospiro. I miei occhi si fissavano in quelle buie gole che la mia mente agitata pensava fossero certamente piene di rettili ed altri animali poco gradevoli.
– “Domattina questi luoghi le faranno un effetto ben differente e sarà con vero piacere che farà la scelta del suo piccolo rifugio”.
Mentre così mi parlava s’ode un rumore di carriaggi sull’alto ciglio della sponda a noi sovrastante.
–“Sono i nostri pezzi che prendono posizione.” mi spiega il capitano, ma non aveva terminato di pronunciare l’ultima parola che un grido alto risuona nella notte, seguito da un tonfo sordo nel sottostante scoglio.
Si corre sul luogo. E’ un uomo, un nostro artigliere, distesi supino a terra senza dar segno di vita.
Mentre il capitano lo palpa e dolcemente lo scuote chiamandolo per nome, io corro ad avvertire il più vicino posto di soccorso.
Al mio ritorno coi militi della croce rossa, il compagno si è riavuto e rassicura il capitano di non essersi fatto nulla e si sforza di sorridere.
-“ Ma questo è un miracolo,” grido piangendo dalla gioia, “sia ringraziato Iddio!” e con tutte le cautele aiuto gli infermieri ad adagiarlo sulla barella.
Durante il percorso, il valoroso compagno non volle abbandonarmi la mano che mi stringeva convulso come in no spasimo di dolore. Fu solamene al momento di lasciarmi che mi confessò sottovoce:
-“Caro Joli, ho la gamba destra spezzata”.
– “Ma se hai detto al capitano che non ti sentivi nulla?”
Il paziente ebbe un lampo di fierezza negli occhi.
-“Perché dovevo rattristarlo? Addio e buona fortuna a te.”
Io mi chinai su di lui e baciandolo in fronte piansi come un ragazzo.
L’indomani ci pervenne la triste notizia che era deceduto in seguito a commozione cerebrale.
Si chiamava Fraschetti Attilio, di Parma, classe 85, ed è con cordoglio che ho citato il suo nome nelle mie memorie come un raro esempio di fortezza d’animo e di devota affezione verso il suo comandante.