Non giunge ancora l’ordine sospirato di riprendere la marcia e continua a piovere a dirotto senza un minuto d’interruzione.
Il campo s’è trasformato in un vasto acquitrino nel quale ci si affonda fino ai polpacci.
Per mia disavventura sono assalito da disturbi gastrici e forte mal di capo. Temo d’ammalarmi e mi raccomando al buon Dio di preservarmene.
I bravi artiglieri, partiti con tanto entusiasmo e tanto buon umore, sono ora nervosi e imprecanti.
Il mal tempo è il più acerrimo nemico del soldato.
Le quotidiane fatiche e i disagi innumerevoli, i pericoli incombenti ad ogni ora, non riescono a togliergli di dosso quella verve di giovanile spiritosità che è propria del nostro sangue italiano. Esso tutto sa sopportare con ammirevole indifferenza e buon umore, perché si sente forte nei suoi saldi muscoli, temperati da tempo a tutte le fatiche. I pericoli scampati accrescono in lui la sicurezza della sua immunità e costituiscono un titolo di vanto. Sembra compiacersi di enumerare i casi in cui fu a tu per tu con la morte; e ride, ride come un fanciullone che stia raccontando qualche novella boccaccesca.
Ma la pioggia, il viscido fango, il sentirsi molle d’acqua ed impacciato nei movimenti, lo irritano, lo avviliscono.
Impreca, diventa cattivo. Sente che il suo fisico, per quanto robusto, ne soffre; ed egli ha vergogna di non sentirsi più in gamba.
Questo spiega il grido di gioia feroce e lo slancio ammirevole del fante quando lascia con balzo felino l’odiata trincea, ridotta una cloaca, per lanciarsi sul nemico.
Al viscido fango dell’angusta trincea preferisce la sortita verso la morte.
I nostri bravi ufficiali, che avrebbero potuto trovare comodi ripari nei dintorni di Capriva, non abbandonano un minuto i loro artiglieri offrendo loro l’esempio della rassegnazione e del dovere.
Una tenda da campo distesa sulla cima di quattro pali, una rustica tavola rabberciata con tavolette d’imballaggio, alcune cassette vuote per sedie, ecco il loro ricovero, la loro saletta da pranzo, l’ufficio di fureria.
Imbrattati di fango, come noi, fino agli occhi, si burlano a vicenda e si sforzano di fare dello spirito.
Sono riuscito a procurarmi un posticino sotto un carro foraggio, a pochi metri dalla tenda degli ufficiali e me ne resto lì accoccolato sopra un po’ di paglia come un povero cane frustato.
Un compagno compiacente mi ha portato la mia gavetta ricolma di pasta fumante, ma il cibo mi ripugna. Soffro tanto.
Ed io invidio quei miei ufficiali consumare con vorace appetito quelle saporite vivande.
Ma più che il loro pranzo è la loro salute ch’io invidio e la loro allegria.
Quello che più attrae la mia attenzione è il tenente Marzioli, il più anziano di tutti.
Paffuto, rubicondo, baffi e pizzo d’un biondo slavato. Mani grasse e tozze, come abituate più alla vanga che alla penna., i capelli folti e ricci ricadenti sulla nuca sino a toccare le larghe spalle.
Ignoro chi egli sia, conoscendolo da pochi giorni, ma dal suo esteriore deduco facilmente il suo essere, perché mi ha tutta l’aria d’un gentiluomo nato e vissuto nella tranquillità di un qualche paesetto di provincia, fra le avite mura d’un vecchio castello.
Che grazioso contrasto col collega suo vicino, l’elegante e spiritoso tenente Marchini.
Ma il nostro provinciale è poco loquace e s’accontenta con cenni del capo di rispondere od approvare i discorsi degli altri; discorsi che, pare, lo interessino assai poco perché non toglie gli occhi di sopra al suo piatto ed è tutto intento al suo pasto. Non mangia, divora; e il povero cameriere di mensa suda due camice a servirlo. L’amica bottiglia non s’indugia granchè a lui dinnanzi e vedo giungerne una seconda e prendere il posto della prima che, poveretta, lanciata vuota per l’aria, va ad infrangersi in un cumolo di rottami.