3 Settembre 1916 – In marcia

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E’ per me una sensazione nuova trovarmi per la prima volta seduto sopra un avantreno, fra un cumulo di attrezzi che mi tormentano i fianchi.

La discesa del monte Corada è quanto mai impressionante e difficile.

Debbo far prodigi d’equilibrio per non essere lanciato a terra. Le brusche girate, i continui incontri con autocarri e automobili, gli sbalzi dell’avantreno che pare minaccia di rovesciarsi ad ogni momento, il rasentare sovente il ciglio di qualche burrone o sfiorare le punte acuminate di scogli strapiombanti sul nostro capo, mi mettono addosso un certo timore da non accorgermi neppure del fastidio doloroso che mi produce il largo elmetto d’acciaio che mi martella in modo indiscreto la mia povera testa.

Lasciamo dietro di noi vari villaggi e le truppe, ivi accantonate, ci salutano agitando i loro berretti.

Ai piedi del monte si fa una breve sosta per far riposare i cavalli.

Ritta sopra uno scoglio, una lunga e magra figura di vecchio soldato ci grida parole che non riusciamo a percepire.

Approfitto della mezz’oretta di sosta e mi appresso al vecchio.

E’ un caporale del 3° Alpini.

Lo saluto, e con atto confidenziale, battendogli una mano sulla spalla

Papà, gli dico, convenitene che dovremo trovarci in poche buone acque se il Comando ha richiamato anche la vostra classe. Se non erro dovete certo toccare la sessantina, quantunque dall’aspetto ne dimostrate molto meno. Sarei un poco curioso di sapere qualche cosa …  .—

Ben volentieri” m’interrompe con un benevolo sorriso, ”ben volentieri. La mia storia è breve; l’ho narrata a tanti. Chi non conosce ormai il caporale Matteo del 3° Alpini? Vedi, figliuolo, questi galloni me li ha conferiti , di motu proprio, sua maestà il Re.”

-“Il Re?”

-“Precisamente. Vedi, io sono di Carrara ed ho i miei sessant’otto anni suonati. Non lo crederesti, nevvero? Pure tanti sono e me ne vanto. Vivevo tranquillo con i miei tre figli lavorando alla cava.La guerra me li ha portati via ma, grazie a Dio, sono tutt’ora belli e sani, quantunque da un anno in prima linea.Vedovo, solo, che ci stavo a fare nella mia deserta casetta? A rattristarmi e a piagnucolare come una donnicciuola? No, per Dio! Ho fatto quattro campagne dell’indipendenza, ed ho ancora i pugni sodi. Ho chiesto e ottenuto di arruolarmi volontarioma non mi è stato concesso stare in linea con i miei figliuoli. Questo io volevo, ma pazienza!  Qui pure faccio tanti servizi, e se non posso accoppare qualche austriaco, sono ugualmente utile in tante altre cose. Preparo le mine, tengo in consegna gli arnesi di questi operai. Fornisco loro l’acqua per bere. Sai, il mio pane me lo voglio guadagnare. Senti, a proposito dei miei galloni ti dirò che dieci mesi or sono, proprio in questa strada, ancora incompleta, c’era da ballare.  Vi tiravano, quei cani, notte e giorno. Io avevo l’incarico di non lasciare passare nessuno, per nessun motivo, in certe ore del giorno, ma farli passare per la mulattiera che traversa il bosco qui alla sinistra.  Ecco che mi capitano una dozzina di bersaglieri. Bei tipi davvero! Non volevano saperne di ordini, avevano fretta loro e credevano burlarsi del vecchio.  – Ah si?! Non volete ubbidirmi colle buone, ragazzacci? Vi metto a posto io – e senza altri preamboli mi piazzo in mezzo alla strada col fucile a crociat-it. Lo credi? Quei Signorini, vista la mala parata, girano il tacco.In quel trambusto io non ebbi tempo d’avvertire che un’automobile se ne stava ferma a pochi passi dietro di me e che tre ufficiali n’erano già scesi.Mi volgo al rumore dei loro passi, e che vedo? Indovina. Sua Maestà il Re in persona, accompagnato da due generali. Confuso m’irrigidisco sull’attenti, ma il Re mi sorride e mi dice –Bravo! Hai fatto egregiamente il tuo dovere. Ti promuovo ora caporale. Poi mi porse di sua mano un bel mazzo di toscani.”.

S’ode un comando di partenza.

Ci abbracciamo con trasporto.

-“Dove sei diretto con la tua batteria?”

-“ Non lo so”.

-“Hai moglie tu?”

-“Si, e tre bambini”

Il buon vecchio sospira, e stampatomi un grosso bacio sulla fronte :”Ti aiuti il Signore! Fatti animo; addio”.

Si riprende la marcia.

Altri piccoli villaggi raccolti intorno alle loro bianche chiesette dagli snelli campanili che si profilano nel bel cielo di cobalto.

Si traversa una grossa borgata.

Al limite di questa è una sontuosa palazzina adibita ora ad ospedale.

Al rumore dei carri le finestre si popolano di feriti e di assistenti sanitari. Un giovane frate cappuccino esce frettoloso dall’atrio e sale sopra un rudere a fianco della cancellata d’ingresso. Una piccola barba bionda gli incornicia il volto pallidissimo e gli occhi infossati attestano le sofferenze del suo pietoso ministero.  Con un largo gesto delle scarne braccia, come ad un amplesso, ci grida parole di benedizione e d’incoraggiamento.

Si passa … .

Ad una brusca girata a zig-zag mi volgo indietro. Rivedo quei prodi feriti, sporgentisi dalle finestre, agitare in aria le mani in atto di fraterno saluto; rivedo il fraticello, sempre ritto sul rudere, levare le braccia al cielo e colla destra tracciare verso di noi il segno di nostra redenzione.

Si prosegue la marcia ed oltrepassiamo il villaggio di Russig. Il sole è scomparso dall’orizzonte dietro una cortina di nubi caliginose, orlate di un rosso sanguigno: presagio di vicino mal tempo.

Nei pressi della grossa borgata di Capriva ci accantoniamo in mezzo a campi di granone. E’ già notte avanzata.

Sulla nuda terra e raggomitolato nella mia coperta da campo, i miei occhi cedono presto al sonno ristoratore.

La mia mente, agitata da quell’indefinibile senso d’ansia che l’ignoto produce nei cuori di tutti gli esseri umani, vaga in un labirinto di sogni strani e paurosi .. .

Mi sveglio di soprassalto con brividi di freddo per la persona e mi sento molle d’acqua.

Da vario tempo piovigginava.

Cerco di ripararmi sotto qualche avantreno, ma non trovo un palmo di posticino, che tutti erano già occupati. Mi rassegno a passare il resto della nottata, accoccolato dietro un cassone, ravvolto nella mia povera coperta già pregna d’acqua.

 

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