Tutti gli uomini della batteria sono allineati in due righe sul prato, attendendo il loro capitano.
Sono tristi e taciturni perché debbono assistere ad una penosa cerimonia: la degradazione di un loro compagno, il soldato Pellecchia.
Posto fra due sentinelle armate egli sembra un automa. Immobile, col viso cereo e lo sguardo inebetito errante qua e là fra le file dei suoi commilitoni, che lo guardano con segni di compassione.
Un attenti. Ecco avanzarsi il capitano, seguito dai suoi ufficiali.
Gli innumerevoli disagi dei passati giorni di combattimento lo hanno un po’ abbattuto nel fisico, ma i suoi occhi conservano quella vivacità suggestiva che è imperiosa ed amabile nel contempo.
Sa farsi amare e temere.
Ecco le qualità indispensabili d’un comandante.
-“Miei artiglieri, mentre sono orgoglioso di voi che in queste giornate d’azione avete dato prova d’ammirevole sangue freddo e disciplina, da meritarvi l’onore dell’encomio solenne del nostro prode Colonnello; mentre le altre batterie del settore vi additano ad esempio, mentre io dovrei ora giustamente gustare il premio della lode tributatavi, il mio animo è rattristato per una mancanza grave commessa da un vostro compagno d’arme. Mentre voi, o miei bravi artiglieri, esponevate generosamente la vostra vita ai pezzi, ferocemente controbattuti dalla mitraglia nemica, mentre voi, o serventi del glorioso primo pezzo, scampati da certa morte, rispondevate all’austriaco con nuove raffiche di fuoco confondentesi alle note del vostro inno di batteria, il soldato Pellecchia ignominiosamente si sottraeva al suo sacro dovere. Comandato di consegnare un ordine all’ufficiale di servizio, all’osservatorio avanzato, fingeva partire, mentre venne trovato due ore dopo nascosto dietro un rudere nelle vicinanze d’Urtaka.
La vostra grave mancanza, “grida rivolto all’imputato, ”merita il carcere militare, se non qualche altra pena più terribile.
Ma mentre io compilavo il verbale della vostra obbrobriosa mancanza, verbale che avrebbe dovuto tradurvi innanzi al severo tribunale militare, m’è apparsa davanti agli occhi l’immagine di una vecchia santa donna, ch’io non conosco ma che venero ed amo, come venero ed amo tutte le madri dei miei bravi artiglieri. L’immagine che mi si presentava in quel momento, in atto di disperato dolore per supplicarmi clemenza, era vostra madre. Ebbene, se non avete voi pensato a vostra madre mentre commettevate quell’atto vile che poteva avere conseguenze funeste per tutta la batteria, se non avete pensato voi alla vostra santa mamma che trepida per voi, vi ha pensato il vostro capitano nel punirvi. Vi sottraggo al carcere, risparmio questa infamia a voi, questo dolore e questa vergogna alla vostra famiglia, ma vi tolgo dalla mia batteria. Qui non vi è posto pei codardi e pei vili, e voi vi siete reso indegno di portarne gli onorati fregi. Il motto, di cui va altera la seconda batteria, non dimenticatelo, è : – A nessuno secondi – . Voi ne avete offuscato l’emblema, anche offeso i compagni e peggio ancora li avete esposti a seri pericoli se altre circostanze non avessero cambiato la situazione del momento. Andate! Non siete più degno di rimanere fra questi forti e coraggiosi miei artiglieri..”
E mentre un caporale gli strappa dal berretto e dalle contro-spalline i distintivi della 2° batteria, un brivido di commozione ci assale.
E’ una scena penosa.
Il degradato, immobile sull’attenti, piange come un ragazzo, e quando il capitano gli volge le spalle per andarsene, questi gli corre appresso, giunge ad afferrargli la mano e glie la bacia convulso mentre gli cade ginocchioni d’innanzi.
Quelle lacrime sono dono di Dio e feconderanno il seme della sua riabilitazione.
“Quando le nostre truppe attaccavano quota 85 ad est di Monfalcone, per assicurarsi quella posizione di ala e nel tempo stesso distrarre l’attenzione del nemico, questo credette trattarsi di una parziale offensiva.
E però il 6 agosto quando tutte le nostre batterie di tutti i calibri e le batterie di bombarde (la nuova arma preparata dall’esercito italiano) aprirono un formidabile fuoco dal Sabotino al mare, il nemico fu assolutamente sorpreso.
Lo stesso giorno i pilastri della testa di ponte di Gorizia erano conquistati. Il generale Borsevic, comandante l’armata austriaca, rivolse un appello disperato alle sue truppe. Ma il 7 e l’8 l’attacco nostro proseguì incalzante, e alla sera reparti della brigata Casale passarono a guado l’Isonzo; il 9 le truppe italiane entrarono a Gorizia. Contemporaneamente sul Carso fra il 6 e il 9 fu conquistato il S.Michele; il giorno 10 tutta la zona del Carso fino al Vallone, formidabilmente munita, fu abbandonata al nemico; il giorno 11 i soldati italiani passano il Vallone ed entrano a Oppachiasella.
La caduta della piazzaforte di Gorizia e la conquista del primo baluardo del Carso costituiscono un’operazione militare di prim’ordine, non solo per il valore e l’importanza intrinseca, ma specialmente per la lodevole preparazione.”