2 Giugno 1916 (seconda parte) – Sul Corada

sul-coradaChi, salendo l’erta cima del Corada sino a quota 714, si spingesse un po’ più in su, verso destra, traversando un folto boschetto sino a raggiungere una piccola chiesetta col suo snello campanile, non avrebbe a pentirsi della breve ma pericolosa ascensione.

Questo modesto edificio, miracolosamente risparmiato dall’uragano di ferro e di fuoco che ha miseramente distrutte le povere casette coloniche che gli facevano corona, domina per tre quarti la zona del grandioso teatro della nostra guerra.

Questa bianca chiesetta è la sola che ricordi il tranquillo villaggio di Santa Gendra, ridotto un mucchio informe di ruine.

Di lassù il visitatore ammirerebbe il massiccio del Montenero colle sue alte cime nevose indorate dal sole, sino alla brulla e dentellata catena carsica. E, più oltre ancora, vedrebbe sin là dove l’orizzonte di un puro cobalto va man mano sfumando in leggere gradazioni di tinte sino a confondersi colle lucenti acque del nostro bel Adriatico, che in quel punto forma il golfo di Panzano.

Ecco lì di fronte il famoso, inespugnabile Monte Santo (m. 682) dalla caratteristica forma conica. Sul suo ardito cocuzzolo troneggia il maestoso e rinomato santuario dedicato alla Vergine, meta sospirata di varie generazioni di credenti.

Ecco il Cuk con alla destra la piccola quota 383, letteralmente bruciata e sconvolta dai nostri colpi ed anche dai loro. Quella quota resterà memorabile nella patria istoria per la mirabile tenacia dei suoi espugnatori che per un anno resistettero al diluvio del fuoco avversario, fermi, attanagliati agli scogli, senza retrocedere d’un passo, con una costanza ed uno sforzo che ha del sovrumano.

Sapevano i nostri valorosi che quella quota era la chiave, era il solo passaggio per espugnare il Vodige ed il Cuk, il potente difensore del Santo.

Sulla vetta di quella quota, gli Austriaci giornalmente scaraventavano al basso, contro le nostre posizioni mal protette, enormi macigni che, frantumandosi di scoglio in scoglio, si moltiplicavano divenendo vere piogge di detriti altrettanto micidiali quanto le granate.

Maestri d’ogni vituperevole arte di guerra, lanciavano giù, con appositi macchinari, dei barilotti di legno, cerchiati di ferro, contenenti dei formidabili esplosivi, i quali s’incendiavano non appena ricevevano l’urto delle nostre improvvisate opere di difesa. Il loro effetto distruttivo eguagliava, se non superava, quello delle terribili bombarde. E quei cani univano all’opera loro i motteggi e l’insulto : “Questo per voi, porci Italiani, quest’altro per voi, Italiani traditori, ne volete ancora? Perché non vi provate a salire più su?”.

E venne il memorabile giorno che vi provarono.

Nessuno retrocedette. Assalirono in mille, vi giunsero in cento, ma furon vincitori.

Non erano uomini che si battevano, erano titani. Era la forza del diritto, la voce dell’umanità incarnata in quei rappresentanti d’una gloriosa Nazione.

Vedo le vertiginose acque dell’Isonzo, d’un colore verde scuro, scorrere a zig-zag fra le pendici del Cuk, bagnando Plava, poi con una brusca girata insinuarsi profonde fra le strapiombanti pareti del Santo e del Sabotino, lambendo Salcano e la bella città di Gorizia.

E continuando il suo corso prende altro aspetto e come un nastro argenteo entra nella bella pianura di Gradisca, cingendola in un largo semicerchio sino a gettarsi in mare, là, di fronte a Duino.

Il rabbioso mastino austriaco difenderà con la forza della disperazione l’ingresso di Trieste, la gemma del suo impero anelante di sfuggire ai suoi artigli per ricongiungersi alla Madre Patria.

 Tutt’assorto nella contemplazione di quell’imponente e suggestivo panorama, l’animo mio è invaso da un indefinibile senso di pietà e di stupore. S’inumidisce il ciglio e dal cuore mi sale spontanea una preghiera.

“Dio, benedici le armi nostre! Fallo per la tua giustizia, pel sangue glorioso di tanti prodi caduti, per le lacrime sante di tante madri, per le preghiere di Santi innocenti. Fa che possiamo presto scacciare il nemico da queste nostre terre e rendi nuovamente l’amata Patria libera e grande.”.

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– “Professore”, mi grida la guida, seduto su uno scoglio a pochi passi da me, fumando tranquillamente la sua pipetta di terracotta, “professore, si cuntinuate cussì non arriveremmo a Zamedwedje che domani … . Madonna santa, mi sembrate spiritato, che cosa avite?”

-“Niente, amico mio, scendiamo pure.”.

Consegnati i cavalli ad appositi uomini di guardia, continuiamo il nostro cammino attraverso un fitto bosco.

Per la prima volta compresi cos’è la guerra.

Gli alberi sfondati elevanti al cielo moncherini di rami straziati, altri coi tronchi schiantati a metà. Chi aveva la corteccia sollevata e bucherellata in più punti e tanti ancora sradicati completamente al suolo che prende ora l’aspetto d’un piccolo cratere causa  lo sconvolgimento praticato da potenti granate.

Per ogni dove, agglomerati in un ammasso caotico, rami, attrezzi agrari, brandelli d’indumenti, rovi e fogliame.

Poi un groviglio di fili dentati, cavalli di frisia gettati qua e là ed accavallati gli uni sugli altri. Trincee semidistrutte e abbandonate, cosparse di bossoli, giberne, elmetti, stracci d’ogni sorta. Di quando in quando bocche di lupo, scogli spostati e infranti; ovunque pietrame e schegge di proiettili d’ogni calibro di cui alcuni inesplosi, attorniati appositamente da alcuni fili metallici, per indicare al viandante il pericolo ed impedirgli d’urtarli col piede, cosa che il più delle volte ne provoca l’esplosione.

“Ma qui è passato un diluvio di fuoco”, dico alla guida, “è un orrore ..”

“Madonna santa”, esclama,” non me lo dicite.” e , steso il braccio, m’indica un piccolo prato a ridosso del monte.

“Prima era un boschetto di nocciuole, ora è .. un cimitero.” Aggiunge sospirando.

Difatti fra quel manto verde, trapuntato di candidi fiori alpestri, scorgo una quantità di piccole croci allineate, portanti ciascuna al centro un bianco cartellino…  .

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