Si scende alla stazione di Cividale verso le ore 6 e 30 colle membra indolenzite dal penoso viaggio su quei traballanti carri bestiame.
Coi nostri pesanti zaini ci incolonniamo subito per quattro, diretti a piedi alla volta di Dolegna.
La ferrovia s’arresta a Cividale che è l’ultima città italiana di confine. Nella piazza centrale sorge un artistico monumento. Al centro di due alte colonne di stile dorico-romano, sormontato da due bronzee maschere rappresentanti il dolore e il riso, troneggia maestosa ed ispirata la nobile figura di Adelaide Ristori.
I cittadini, accorsi sulla via al nostro passaggio, ci gridano parole di augurio e di incoraggiamento mentre varie leggiadre signorine, con nastri tricolori al petto, s’introducono leste in mezzo alle nostre file, distribuendoci, col più amabile dei sorrisi, fiori, tabacco, cartoline illustrate, zollette di cioccolato, ecc.
Eccoci in aperta campagna.
Dai campi, dai prati, ingemmati dalla rugiada, s’eleva un profumo d’erbe e di fiori, mentre il bel disco solare s’innalza lentamente tutt’avvolto in un’aureola d’oro per effetto della leggera nebbia che ancora gli fa velo.
La piccola strada carrozzabile ora s’insinua a zig-zag ai piedi di piccole collinette, ora fiancheggia i fioriti margini di vasti prati, ora s’addentra in piccoli boschetti echeggianti di gorgheggi di quei liberi e felici abitatori.
Già da quattro ore s’è in marcia, stanchi, ricoperti di polvere e grondanti di sudore.
“Coraggio, eccoci al confine, un altro piccolo sforzo, da bravi! Lo so, non eravate abituati a questi strapazzi, ma vedrete che a tutto ci si fa l’abitudine. Basta un pò di buona volontà e non pensare ad altro se non al proprio dovere.”
Così ci parla il bravo tenente di complemento, rosso in volto come un papavero selvaggio e tutto trasudato egli pure.
Ecco laggiù profilarsi all’orizzonte la guglia d’un campanile, poi, man mano che s’avanza, i caseggiati e le belle villette sparse sui pendii del monte.
Eccoci al primo paesetto redento, Dolegna, la nostra meta.
Con nuova lena si riprende la marcia, dopo una breve sosta di riposo, cogli occhi fissi su quel punto ed il cuore trepidante dall’emozione.
Odesi il fragore delle acque del piccolo fiume Indrio che bagna il paesetto. Le sue acque segnavano il confine politico impostoci da un vituperoso congresso, non dalla natura né da ragioni etniche o di razza. Un confine da burla che, dividendo i fratelli dai fratelli, altro non serviva che ad accumulare nel cuore degli italiani una messe d’odio ed un’aspirazione sempre più crescente di libertà e di vendetta contro l’immonda aquila bicipite dai rostri ancor tinti del sangue dei nostri gloriosi Padri.
Pochi minuti ci dividevano dal ponticello di legno che ci separava dai nostri fratelli redenti che ci attendevano in folla con bandiere e fiori, là sull’altro margine. Questi fratelli che hanno sempre parlato la nostra lingua, malgrado le imposizioni e le sevizie dei loro dominatori; questi fratelli che hanno sempre custodito nel sacrario delle loro famiglie l’amore della loro madre patria, fieri della loro civiltà e della loro cultura, del loro cuore latino.
Oh con che tripudio di vera gioia accolsero i primi soldati d’Italia! I baldi bersaglieri ciclisti dopo aver atterrato con un’urrà solenne il vituperato palo di confine e passato a guado l’Indrio (non passarono sul ponte nel dubbio che fosse stato precedentemente minato dagli Austriaci), traversarono veloci la cittadina esultate al canto dell’inno di Mameli, per inseguire i gendarmi austriaci in vergognosa ritirata (24 maggio 1915).
Ecco passato il ponte, eccoci al nostro accampamento.
Liberatomi finalmente dello zaino, reso ancor più pesante per l’aggiunta della mia cassettina contenente i colori ed i pennelli, mi abbandono con un sospiro di soddisfazione sul molle tappeto del prato, ammirando il bel panorama che mi si offriva dinnanzi.
In quel punto l’acqua, per un naturale dislivello del fiume, formava una superba cascata. Al basso una fitta cortina di scogli tratteneva l’impeto delle acque che s’infrangevano rumorose e spumeggianti per poi riprendere più calme il loro corso verso il lido.
Dal lato opposto alla riva, che scendeva a strapiombo, si profilavano gli alti pioppi, lasciando scorgere nei loro intermezzi degli squarci d’un puro cobalto e le vicine colline irrorate dal sole.
Suggestionato da quelle naturali bellezze e dimentico della mia stanchezza, apro la mia cassettina e, disposti i colori sulla tavolozza, m’accingo a ritrarre quel bel paesaggio.
Lavoravo con lena senza accorgermi che dietro di me s’era già formato un gruppo di curiosi. Ma poi mi volsi e vidi, innanzi agli altri, un ufficiale che, intento, guardava il mio lavoretto.
– “Ah, lei è pittore?”
– “Semplice dilettante“, rispondo un pò confuso, mettendomi lesto sull’attenti,
– “Bravo, continui pure, la lascio in libertà.”
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Due giorni dopo una guida, spedita da Zamedwedye, scendeva a Dolegna per consegnare un ordine al comandante il distaccamento : “Domattina il soldato Ioli si recherà in batteria a disposizione di questo Comando”.